“Prevenire è meglio che curare”: noi abbiamo preso questo detto davvero sul serio.
Il progetto CEAR mira al contrasto dell’estremismo e della radicalizzazione attraverso il coinvolgimento attivo delle comunità locali in Francia, Ungheria, Portogallo, Cipro, Grecia, Italia, Polonia, Svezia e Romania. A tale scopo, i partner del progetto stanno supportando ONG e attivisti locali nella fase di implementazione di iniziative di prevenzione e contrasto dell’estremismo violento (P/CVE) rivolte ai membri delle proprie comunità di riferimento.
Per di più, leggere le testimonianze di altri operatori che lavorano “in prima linea” può offrire notevoli spunti di riflessione e informazioni preziose su come raggiungere un obiettivo così complesso.
A tale riguardo, coloro che sono particolarmente interessati ad affrontare il tema in questione potrebbero trarre ispirazione da questa intervista e comprendere come meglio gestire le proprie iniziative di prevenzione e contrasto dell’estremismo violento.
Nell’ambito del progetto CEAR, abbiamo avuto l’opportunità e il piacere di intervistare un esperto del settore come Luca Guglielminetti[1] al fine di raccogliere la sua personale esperienza e conoscere un po’ di più il suo lavoro.
Siamo profondamente convinti che le parole e l’impegno del Dott. Guglielminetti possano dar vita a nuove attività e progetti che contribuiranno al benessere della società, con particolare riferimento alle fasce più giovani. Invitiamo tutte le persone interessate alla tematica a leggere questa testimonianza:
Come e quando hai iniziato a sviluppare un interesse verso la prevenzione dell’estremismo violento?
Esattamente dieci anni fa. Nel Settembre 2011 la Direzione Generale Migrazione e Affari Interni della Commissione Europea iniziò a pianificare la creazione della RAN (Radicalisation Awareness Network) e mi fu chiesto di unirmi già in fase di progettazione. Allora io ero coinvolto, ormai dal 2006-2007, con la Rete Europea delle Associazioni di Vittime del Terrorismo e per di più, ero consulente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (AIVITER). Per questo suggerì, ma non fui l’unico, di includere un gruppo di lavoro dedicato al ruolo delle vittime del terrorismo.
Sei mai stato coinvolto nello sviluppo di un progetto di P/CVE? Qual era lo scopo del progetto?
Sì, in realtà sono stato coinvolto in innumerevoli progetti volti ad implementare attività di prevenzione e contrasto dell’estremismo violento. Posso parlarti di alcuni…
I primi progetti europei e locali che ho progettato e gestito dal 2012 in poi riguardavano la prevenzione primaria. Questi nascevano dall’attività realizzata in precedenza con AIVITER attraverso la creazione di uno specifico gruppo di lavoro che si occupava delle scuole locali allo scopo di favorire l’incontro tra studenti e vittime del terrorismo e discutere della violenza politica così come della storia del terrorismo in Italia. In sostanza, lo scopo era quello di migliorare le capacità di pensiero critico degli studenti dinnanzi alla nuova ondata di propaganda diffusa dall’estremismo violento.
Abbiamo avuto l’opportunità di collaborare con una scuola locale per realizzare le attività del progetto e lavorare con professori e studenti tra i 15 e i 16 anni, analizzando l’uso della forza come strumento per raggiungere fini politici. Inizialmente abbiamo alimentato il dibattito e valutato la percezione degli studenti in merito al tema in questione. Alcuni di loro erano inizialmente favorevoli all’uso della forza per raggiungere obiettivi politici.
Come emerse dai materiali finali (video, canzoni, etc.) creati dai gruppi di studenti così come dal questionario finale sottoposto al termine del progetto, nessuno studente era più favorevole all’uso della violenza per scopi politici. Furono dunque raggiunti importanti risultati.
Oltre a questo progetto, ho partecipato a “Exit Europe”, progetto terminato ad aprile di quest’anno, e focalizzato sull’applicazione di strategie di “exit” e sulla riabilitazione sociale degli estremisti attraverso il coinvolgimento di alcune organizzazioni della società civile. Il progetto partiva dalla consapevolezza del fatto che esiste un gap tra paesi nordici e paesi del sud dell’Europa in materia di P/CVE. I paesi nordici infatti hanno tutti dei programmi di prevenzione attivi, cioè non aspettano i progetti europei per fare attività di prevenzione ma sono gli stessi Stati a investire in questo settore.
L’idea era quella di formare e creare equipe specializzate in paesi un po’ più “deboli” in questo ambito come l’Italia, e chiaramente gli altri paesi partner, per poi lavorare con i cosiddetti “clients” a livello locale e favorire la loro riabilitazione.
Abbiamo creato un eccellente gruppo di lavoro a Torino, formando un network di operatori, tra cui un educatore, un neuropsichiatra e gli operatori per le attività di exit: un gruppo di esperti che potevano lavorare fianco a fianco e, se necessario, supportarsi a vicenda.
In generale, che tipo di cambiamento ci si aspetta dalle persone oggetto di tali iniziative?
La finalità primaria non è far cambiare idea quanto intervenire sul lato comportamentale. Una persona rinuncia alla violenza quando la riporti all’interno di un circuito di reti sociali positive in cui possa trovare relazioni sane. La famiglia è uno dei punti fondamentali ma è più difficile intervenire, soprattutto sui suoi equilibri; non puoi “imporre” certi cambiamenti ai genitori. Di contro, è molto più facile aiutare una persona a trovare dei compagni di scuola, di attività sportiva o ricreativa.
Però l’importante è lavorare sul recupero sociale, poi l’aspetto ideologico se viene, arriva comunque successivamente.
È dunque lecito avere un’idea radicale, l’importante è non ricorrere alla violenza per far valere il proprio pensiero. Durante un seminario al quale ho partecipato un professore disse: “Abbiamo bisogno di più studenti radicali”. In tal senso, il radicalismo può significare solo forte capacità critica.
Ad esempio, nel corso del progetto Exit Europe abbiamo avuto a che fare con un caso molto serio ovvero un ragazzo, intercettato dalla Polizia Postale e poi arrestato, che si era auto-radicalizzato in solitudine davanti al computer, abbandonando la scuola e maturando un’ideologia di estrema destra fortemente contraria a tutte le minoranze. Aveva anche scritto un manifesto veicolato da social network come Telegram ed era in contatto con una rete di cui facevano parte anche soggetti che adesso definiremmo “incels”. Dunque, aveva intenzioni molto serie.
Il nostro gruppo di esperti è riuscito a stabilire un rapporto di fiducia con questo ragazzo, riuscendo a farlo tornare a scuola e convincendolo a partecipare ad un centro estivo dove si discuteva delle vittime della mafia, ecc.
L’attivismo negativo in rete si era dunque trasformato in una attività sociale in presenza che gli ha permesso di recuperare i rapporti con i suoi pari in maniera più tranquilla. È sempre un conservatore, diciamo, ma ha riacquistato una dimensione di socialità positiva.
Quali sono gli elementi chiave per lo sviluppo di iniziative efficaci di P/CVE?
Un approccio integrato multi-agenzia è fondamentale. In Italia, la prevenzione del terrorismo funziona abbastanza bene ma gli attori della prevenzione del terrorismo non possono essere gli stessi della prevenzione della radicalizzazione. In un ottico di cooperazione multi-agenzia, la società civile e le autorità locali vanno coinvolte dal momento che spesso ottengono ottimi risultati in tale ambito. Più soggetti ci sono, migliori sono i risultati. In particolar modo, la società civile svolge un ruolo chiave.
In aggiunta, prevenire e contrastare l’estremismo violento non implica soltanto la sicurezza e la sorveglianza. In Italia manca un approccio “soft” che interpreti la fattispecie della devianza sociale e della criminalità come aspetto di salute pubblica sul quale intervenire in termini preventivi, non tanto poco prima del reato, ma prima che una persona assuma un profilo criminale.
Infine, le iniziative guidate dalla società civile sono le più efficaci nell’attività di exit e il loro intervento è cruciale quando si tratta di stabilire un rapporto di fiducia con i “clients”.
Come pensi che lo Stato possa supportare lo sviluppo di tali iniziative?
È estremamente difficile assicurare la sostenibilità di queste iniziative di P/CVE, dunque queste rimangono belle attività pilota, non diventano una policy. L’Italia è disseminata di buoni progetti in tutti gli ambiti, siamo pieni di ottime pratiche ma siamo poverissimi di politiche. Dunque le pratiche non diventano politiche.
Le competenze esistenti a livello locale si perdono e i “decision-makers” sono spesso incapaci di valorizzarle.
Dall’altro lato, molte attività sono appaltate al terzo settore le cui azioni sono però vincolate ai fondi pubblici o privati, con i limiti che ne conseguono e che sappiamo.
Per riassumere, le autorità competenti dovrebbero mettere a sistema le competenze esistenti e le pratiche di successo che provengono dalla società civile in modo da garantire la sostenibilità delle attività di P/CVE.
A proposito di CEAR
CEAR – Il coinvolgimento della comunità contro la radicalizzazione è un progetto cofinanziato dall’Unione Europea, DG Migration and Home Affairs, Internal Security Fund – Police 2018 (AG-CT-RAD).
Partner
- Lusófona University (Portogallo, coordinatore)
- University of Uppsala (Svezia)
- TechSoup (Polonia)
- Active Citizens Partnership (Grecia)
- Verein MultiKulturell (Austria)
- CESIE (Italia)
- Peace Action, Training and Research Institute of Romania (Romania)
- Center for Social Innovation Cyprus (Cipro)
- Syrien ne Bouge Agissons (Francia)
- Subjective Values Foundation (Ungheria)
- Centre d’action et de prévention contre la radicalisation des indivdus (Francia)
Per ulteriori informazioni
Leggi la scheda progetto, visita il sito web cearproject.eu e seguici su Facebook, Twitter e Instagram.
Contatta Guido Savasta: guido.savasta@cesie.org.
[1] Consulente dell’Associazione Italiana Vittime del Terrorismo (AIVITER) dal 2001 al 2016, è oggi ricercatore e consulente indipendente nella prevenzione e contrasto agli estremismi violenti, lettore all’università di Bergamo e di Bari, membro dello pool di esperti del Radicalisation Awareness Network (RAN) istituito nel 2011 della Commissione europea e RAN Ambassafor for Italy. Impegnato con diverse organizzazioni della società civile in progetti europei e locali, è tra i fondatori del Gruppo Italiano di Studio del Terrorismo (GRIST), membro del direttivo dell’Associazione Leon Battista Alberti e della Conferenza Regionale Volontariato della Giustizia (CRVG) del Piemonte e Valle D’Aosta. Dal 2021 è editorialista del quotidiano Avvenire.