I resoconti dai nostri volontari che tramite il servizio volontario europeo vivono un’esperienza di volontariato in paesi lontani (progetto SVE – Voices From Around the World III), non solo per chilometri ma anche per cultura e tradizioni. Spesso l’incontro ravvicinato e prolungato con le culture diverse è fonte di grande fascino, altre volte lascia turbati e stimola riflessioni profonde sulla propria società e su quella ospitante. L’incontro/scontro crea nei protagonisti un punto di vista non edulcorato e disilluso, mettendo in moto una serie di domande che a volte possono delineare i futuri percorsi biografici e professionali di chi svolge questo tipo di progetti.
In che misura un volontario, nato e cresciuto in un ricco paese europeo, può imparare e migliorarsi vivendo e lavorando per un periodo in un paese come il Nepal?
Di solito, un’esperienza di questo tipo viene definita come “esperienza di vita”: termine generalissimo che contraddistingue tutto ciò che è altro rispetto a quello che, nella mentalità occidentale, rappresenta l’ambito della formazione o del lavoro. Nel mio caso specifico, sei mesi di “vita” a Kathmandu non possono essere considerati né formazione né esperienza lavorativa. Molti in occidente sono convinti che, in fondo, ciò che il Nepal può offrire è soltanto una “brutta copia” di quello che veramente è civile, moderno, avanzato, sviluppato, ecc. Conoscenze, usi e costumi, metodi, metodologie e tecniche che in Nepal vengono impiegate sono essenzialmente antiquate e troppo poco efficaci per poter avere una qualche utilità o efficacia se estrapolate dal loro contesto e inserite in un ambiente cosiddetto “sviluppato”. La relazione che possiamo instaurare tra società europea e quella nepalese è univoca, non biunivoca: i nepalesi hanno tutto da imparare dall’Europa, mentre l’Europa non ha nulla da imparare dal Nepal, in quanto essa è già sempre un passo avanti. L’Europa consce già la strada, in quanto guida: il Nepal, in quanto paese sotto-sviluppato, per il suo bene deve seguire le orme dei pionieri bianchi. L’esperienza di vita nepalese, allora, è utile per il singolo soggetto europeo che là si reca, ma non per la società europea in senso stretto. Cosa ho imparato in Nepal che sia utile portare in Europa? L’esperienza nepalese è efficacissima come terapia: il giovane europeo affetto da melanconia, critico nei confronti della società che lo ospita e lo nutre, guarisce da tutti questi mali dopo aver vissuto solo alcuni mesi fuori dal consueto contesto. Per quanto criticato, l’Occidente è, alla fine, migliore, si sta sempre e comunque meglio. Il volontario europeo torna cambiato, in pace con se stesso e con il proprio luogo d’origine. Amen.
Questa lettura superficiale, perfetta per addormentare le coscienze, non permette di cogliere fino in fondo ciò che un’esperienza di questo tipo può dare. Ho descritto questo punto di vista, forzando volutamente gli aspetti grotteschi e rozzi, perché è quello che mi è stato implicitamente chiesto di descrivere da molte persone dopo il mio ritorno. “Com’è andata? Bella esperienza di vita, vero?”. “Però qua si sta
meglio, o no?”. “Poverini…”. Incredibilmente, molti interlocutori con i qual imi sono intrattenuto in questi giorni facevano le domande e si davano da soli le risposte, senza attendere o prestare attenzione al mio punto di vista o ai miei resoconti. Piuttosto che la curiosità per qualcosa di nuovo, queste persone nutrivano un forte desiderio di essere rassicurate nelle loro certezze.
La stessa difficoltà l’ho incontrata nel cercare di spiegare ai nepalesi la vera realtà europea, dove non tutto è fantastico e perfetto. Il dialogo interculturale, del quale io nel mio piccolo rappresento un medium, è difficile per il fatto che l’idea dell’Altro è legata a doppio filo con l’idea che il soggetto ha di se stesso. Oltre a ciò, l’idea dell’Altro sembra essere, per così dire, “strumentale” in relazione ai bisogni, ai desideri e ai sogni del soggetto. L’idea di una società occidentale perfetta è strumentale per il nepalese medio, che così può credere nell’esistenza di un modello infallibile che, una volta messo in pratica, risolverà i molti problemi che egli deve quotidianamente affrontare. L’idea di un Terzo Mondo povero e arretrato rafforza invece l’autostima di molti occidentali che hanno paura di mettersi in gioco, che non sanno difendersi dalle critiche, che nascondono forse una fragilità e un’insicurezza inespresse.
In realtà, un paese come il Nepal può insegnare molto ad un giovane europeo, sia in termini positivi sia in termini, per così dire, negativi. La forza d’animo nell’affrontare le avversità e la gioia genuina per le piccole cose della vita, la predisposizione per le relazioni umane e la generosità dignitosa, proprie dei Nepalesi, rappresentano qualità positive e importanti, di cui a volte la società occidentale sembra mancare. Allo stesso tempo, nel vedere alcuni nepalesi “scimmiottare” gli europei, cercando di incarnare quello che considerano un modello, ci si rende conto, per riflesso, di ciò che veramente rappresenta la ricchezza e la fortuna dell’Europa. Non il consumismo, né la ricchezza materiale possono fare dell’Europa un modello, ma semmai la conoscenza libera e accessibile ai molti, la consapevolezza, il diritto a vivere dignitosamente che ad ognuno dovrebbe essere riconosciuto. E’ questo di cui veramente sentiamo la mancanza quando si sta in Nepal; questo è quello di cui dovremmo essere orgogliosi, è questo quello che dovremmo condividere con gli altri, quello a cui non dovremmo rinunciare mai.
Alessandro