Testimonianza di Giulia Caponeri e Mattia Ceccarelli, volontari SCN del progetto I.N.D.I.A.
La prima volta che siamo andati a Bhadrak eravamo curiosi. Curiosi di conoscere queste donne dai sari colorati: ce le immaginavamo tra palme e case di fango indaffarate con i loro alveari. Per di più, dopo mesi immersi nel traffico di motori e bovini a Bhubaneswar, eravamo affamati di campagna.
Le tre ore e passa di jeep circondati da distese di risaie e palme ci si erano appiccicate addosso insieme a un livello di umidità disumano. Ma nulla poteva toglierci l’entusiasmo di arrivare, finalmente, al villaggio.
Presa una stradina che si distacca dalla grande colata di cemento armato finora calpestata a suon di clacson, ecco che si arriva a Ranital, nel distretto di Bhadrak.
Dapprima ci ritroviamo di fronte ad un cancello dal quale parte un piccolo sentiero che porta fino ad una casa azzurra circondata da piante. Percepiamo i suoni dei canti e delle urla delle donne, come segni di benvenuto, ancor prima di scendere dalla macchina.
Eccole. Belle, tante, colorate che avanzano con ghirlande e sorrisi verso di noi. E noi, la felicita’ di essere finalmente lì e l’imbarazzo dell’incontro che è fatto di tutto tranne che di parole.
Pronti ad aprire le nostre bocche e far uscire un bel “Namaste”, ecco che le nostre lingue e i nostri palati vengono invasi da lenticchie e legumi lanciati con energia dalle apicoltrici del villaggio in segno di accoglienza. La scena è comica, ma come non mai emozionante.
Ci fanno accomodare all’interno di una stanza. Entrando notiamo una macchina da cucire con la quale imparano l’arte della sartoria, innumerevoli bastoncini di incenso (prodotti da loro) e qualche cartellone scritto in odia, la lingua locale, che intuiamo riguardare miele e alveari solo per il disegno di una piccola ape indiana su un bordo.
Tra discorsi in odia ed il nostro prendere confidenza con mura e sguardi noi due ci scambiamo entusiasti prime impressioni, idee, progetti e domande assurde su come funzionano la società delle api (un esempio di perfezione animale), l’ alveare e queste scatole magiche dalle quali nasce il nettare d’oro.
Mattia, con la sua conoscenza linguistica e passione per il miele, rompe il ghiaccio dicendo qualche parola in odia, scatenando risate e occhi luminosi tra le donne sedute nella stanza.
Ecco i due volontari italiani venuti da lontano a dare una mano per il Madhu Network Project! A dire il vero una mano ce l’hanno data loro.
Eh si! Perché quando a pranzo arriva la foglia di palma con su legumi, frutti e salsine mai viste prima, sono loro a farci capire che quella strana cosa scura è mango secco e che si mangia in un certo modo. Sono loro che vengono verso te con dell’acqua quando esci dalla casa impacciato senza sapere come e dove lavarti mani e viso, completamente ricoperti di riso e dal.
Sono loro che danno un senso al tuo trovarti lì in quel momento; al tuo esserti messo in gioco in questa terra lontana, finalmente immerso tra fiori di mostarda e terra e gesti e profumi.
La seconda volta che torniamo è come tornare a casa dopo essere stati via per un po’. Questa volta andiamo con loro al villaggio, dentro alle case, tra i campi di mostarda.
Ranital è fatto di fango, casette che sembrano bomboniere, circondato da fiori gialli, palme, manghi e qualche gallina che corre qua e là. Quasi tutte le case hanno una scatola verde al loro esterno: ogni donna del villaggio si occupa delle sue api e del suo miele.
Assistere all’estrazione del miele è stata un’esperienza importante: curiosa perché vedi concretamente da dove e come si ottiene il miele, emozionante perché condividi con le donne il frutto del loro lavoro, colpiti dalle loro capacità di apicoltrici.
Ma le sorprese sono anche al di là delle pareti di fango. Entrati in una delle case del villaggio, guidati da una ragazzina sorridente, ci troviamo davanti ad una distesa di funghi indescrivibile: perché, tra miele ed incensi, queste donne coltivano anche funghi su ammassi di paglia appesi al soffitto.
Ce ne andiamo da Bhadrak con una gran voglia di restare, di vivere con loro e di perdersi in quei campi di mostarda.
Ma anche con la voglia di darci da fare per l’evento che ci farà rincontrare e darà loro la possibilità di vendere il loro prezioso miele: la Honey Fair.
Il nostro viaggio all’interno del miele e della Honey Fair era cominciato con le due visite nel distretto di Bhadrak, centro d’attuazione del progetto. In realtà il lavoro principale era ancora da venire. Sembrava che tutto ciò che si sarebbe dovuto fare nelle settimane precedenti avesse beffardamente deciso di concentrarsi proprio negli ultimi giorni prima della fiera. Chili e chili di miele da filtrare -“Ma perché non è stato filtrato quando lo estraevano???”- e da imbottigliare, barattoli da tappare, etichette da scrivere e da attaccare (a quanto pare al grafico era finita la colla quando stampava le etichette); e ancora, poster pubblicitari da spargere in giro per la città, non troppi giorni prima perché non venissero coperti ma neanche troppo tardi, ché la gente deve poter metabolizzare la presenza di una fiera del miele. Tutto questo da condire con una temperatura che oscillava tra i 38 e i 42 gradi. Ah, già, e le bancarelle: chiaramente, per una incomprensione, sono state montate la notte prima della fiera.
Uno dei momenti salienti del pre-fiera, è stato sicuramente l’imbottigliamento: immaginate tre-quattro volontari e Dipak, amico e compagno di lavoro nepalese, armati di colino da tè, con dei misurini di certo all’ultimo grido durante la Prima Guerra Mondiale, alle prese con 4-500 chili di miele (una delle sostanze più vischiose in natura), per riempire bottigliette da 50 gr. Epico.
Anche nell’attaccare le etichette i Nostri e Dipak si sono distinti in destrezza e caparbietà -“Ma perché questa cosa non si vuole attaccare per bene??”- e con ottimi risultati.
Insomma, tra un barattolo e un’etichetta, il fatidico giorno dell’apertura della fiera è finalmente arrivato e, incredibile!, tutto è andato bene. La domenica mattina l’abbiamo passata ad allestire le bancarelle, con l’aiuto un po’ di tutti, donne comprese: attacca i poster -“Un po’ più a destra, adesso un po’ più a sinistra, più in basso, poco più in alto, adesso giralo..perfetto! Ah, no, pende verso destra, meglio riattaccarlo..”- sistema i barattoli, allestisci l’angolo tè al miele (che, detto per inciso, è stato un successone, grazie a Dipak) e l’angolo foto, per il quale abbiamo scoperto la versatilità delle spille da balia – che, a quanto pare, ogni previdente donna indiana porta sempre con sé. E poi l’inaugurazione, i discorsi – quanto piaceranno agli Indiani i discorsi nelle occasioni ufficiali?? – spettacoli di magia e di danza moderna e orissi, sempre affascinante.
Ma i momenti più belli, quelli che ci hanno fatto crescere e che ci faranno piangere quando partiremo da qua, sono stati quelli passati con le donne dietro i banchi. Tra chiacchiere, risate, foto, interviste e scambi di ricette (adesso possiamo cucinare senza problemi un curry di mango secco), abbiamo passato dei momenti di confronto e conoscenza reciproci finora ineguagliati. La bellezza di vedere Giulia e Sangita ridere di cuore dopo aver provato l’una a dire due parole in odia e l’altra in italiano rimarrà nei nostri ricordi per sempre. In fondo, il Servizio Civile non dovrebbe essere proprio questo? Confrontarsi e conoscersi, mondi diversi che si incontrano e si avvicinano, lingue diverse che si sciolgono e che, in qualche modo si capiscono; lingue che non hanno più bisogno di lingue, orecchie che si fanno poliglotte, sorrisi che parlano più chiaramente di migliaia di parole. Ecco, tutto questo, per noi, è stata la Honey Fair e sicuramente, quando torneremo a Bhadrak, prima di partire, non lasceremo loro solo le foto e le interviste fatte, ma anche un piccolo pezzettino di noi stessi, che non capirà mai perché veramente ce ne siamo dovuti andare via.