Da Palermo al cuore dell’Africa occidentale, la voce di Maria Francesca.
“Capita” di partire e di andare lontano, così lontano da raggiungere l’Africa. In Aprile arrivo in Senegal per trascorrervi sei mesi come volontaria SVE presso l’ONG senegalese, Enfance et Paix, tramite il progetto Voices From Around the world III coordinato dal CESIE.
Intraprendere questa esperienza di volontariato non è stata semplicissima e come tutti gli inizi, anche il mio qui non è stato dei più facili. Una descrizione blanda degli eventi di questi mesi sminuirebbe il tumulto delle sensazioni, perfettamente disordinate, che hanno amato muoversi fino ad adesso in me. Seguire un filo preciso del discorso altresì è impresa ardua e spesso mi sono anche chiesta il perché di scrivere qualcosa, perché rendere pubbliche intime e discutibili verità che hai intessuto giorno dopo giorno. L’urgenza della parola? Sarà l’urgenza del mettere per iscritto come segno indelebile, qualora il caso o l’inerzia dei giorni ti spingesse a dimenticare? L’urgenza di condividere, di rendere nota una storia? E allora mi chiedo: “Ma esiste per davvero una urgenza della parola?” Insomma, realmente esiste qualcosa che deve essere assolutamente detto? E il silenzio, qual è il valore del silenzio? Perché mai domandarmi ciò nella rumorosa, assordante Dakar? Perché il mio dubbio nacque non appena arrivata nella sabbiosa, anarchica a tratti, capitale? Pensare al silenzio come una delle vie maestre della comunicazione in Senegal, sembra davvero insolito a primo acchito.
Piccola Babele è il Senegal. Sì, perché in 12,5 milioni di abitanti circa convivono un numero non irrilevante di etnie (43,3% wolof, 23,8% pular, 14,7% sérer, 3,7% diola, 3% mandingo, 1,1% sonìnké, 1% europei e libanesi, 9,4% altri) coi propri codici linguisti – culturali e religiosi di cui 94% musulmani, 5% cristiani, 1% fedeli culti animisti (dati: Carlo Giorgi, Vado in Senegal, Terre di mezzo editore, 2008, Milano). Per mia natura (così si dice spesso) possiedo uno spirito inquieto e curioso; il mio è un continuo stato di ricerca e non riesco mai a mettere un freno alla mia bocca; la parola è essenziale e vitale. Arrivata in terra senegalese però tutta questa sommaria e comune filosofia della parola è stata smembrata senza pietà. Partire per un paese francofono senza aver mai studiato la lingua francese adeguatamente (e figuriamoci le lingue locali del paese) diede vita i primi tempi ad una forzatura al silenzio, all’ascolto e a una scuola di pazienza tutte le volte che avrei voluto dire, che avrei voluto sottolineare il mio dissenso, la partecipazione una osservazione. Col tempo, con attenzione e passione ho costruito e scoperto delle vie che mi hanno permesso di vedere e comprendere molte cose sotto una luce diversa e pian piano le parole vennero dopo. Vi è un tempo per dire, per alzare la voce, vi è un tempo dedicato all’ascolto e al silenzio. Durante questi mesi ho conosciuto delle persone grandiose che hanno lasciato un segno e larga parte delle cose che mi hanno insegnato non è stato durante accese discussioni ma osservandoli imparando dal tempo e col tempo, perché il tempo (scusate il gioco di parole) qui sembra avere tutto il tempo.
Ho imparato a lavorare con persone diversissime da me. Mi correggo, abbiamo imparato l’uno dall’altro mettendo in campo parti differenti delle nostre capacità e conoscenze dando vita a lavori soddisfacenti come un progetto pilota, il Projet Femmes, dedicato alla sensibilizzazione delle giovani donne rispetto alle malattie sessualmente trasmissibili e percezione del corpo. E’ stato molto più di un semplice progetto; è stata la realizzazione di uno spazio di fiducia e intimità tra le ragazze coinvolte, noi volontarie e gli specialisti del settore che hanno partecipato con grande collaborazione. In altri contesti ancora una volta l’utilizzo della “parola” ha assunto un ruolo secondario nel momento in cui puoi utilizzare il canto. L’elaborazione di un piccolo coro con i bimbi del quartiere ha dato anche qui soddisfazioni a me e Fanny, una delle mie compagne di queste avventura. Ancora oggi, a distanza di mesi, quando cammino per strada alcuni di questi bambini attirano la mia attenzione salutandomi e canticchiando le canzoni che insieme abbiamo studiato. Utilizzando ancora una volta il canto come mezzo d’insegnamento ho riscontrato ottimi risultati anche alla scuola materna della ONG. I più piccolini hanno imparato allegramente così l’alfabeto, i numeri cardinali e le parti del corpo.
Spesso il caldo, lo scoraggiamento la poca collaborazione e il disinteresse della popolazione può demotivarti creando degli stati di forte frustrazione, ma abbiamo avuto la fortuna di unirci molto come gruppo di volontari e mettere in campo la nostra inventiva incoraggiandoci a vicenda. Oltre al coro e le altre attività Letizia e Fanny hanno creato degli incontri settimanali di letteratura al Centre Culturel di Sédhiou e sempre Letizia insieme ad Aloïs e l’aiuto un po’ di tutti (il mio direi assente, data l’inesistenza del pollice verde!) hanno creato un giardino botanico pedagogico proprio di fronte la nostra ONG. L’ultimo mese e mezzo è stato dedicato alla preparazione e organizzazione del progetto che chiude il nostro SVE intitolato Sédhiou vert. Un progetto di sensibilizzazione ambientale riguardo l’urgenza e necessità di proteggere il nostro ecosistema dalla pericolosità dei rifiuti (tema dolente qui a Sèdhiou) e un lavoro di educazione informale a favore della comunità tutta e specialmente dei più giovani. Il progetto prevede la creazione di un murales sui muri di un centro sportivo e ricreativo ben frequentato e conosciutissimo dai giovani e non solo e due spettacoli: una rappresentazione di danza contemporanea (mai prima in Sédhiou) presentata da un ballerino direttamente da St Louis sul tema dell’inquinamento delle acque del fiume Senegal e una rappresentazione teatrale di artisti locali sul tema della deforestazione. Il giorno a seguire sarà dedicato alla presentazione di un documentario e discussione con i professionisti impegnati sul tema. Oggi, contrariamente alle percezioni dei primi tempi, mi rendo conto che sei mesi sono davvero troppo pochi per dare vita a dei progetti concretamente duraturi per e insieme la comunità.
Ecco, capita d’essere catapultati in una dimensione totalmente differente dalla tua. Pur essendo l’Interculturalità il mio ambito di studi alcune realtà necessitano d’essere vissute per comprenderle a fondo. Sono cosciente sempre più che questa esperienza, questo posto e questo momento era ed è la cosa di cui più avevo bisogno. Non si tratta semplicemente di scoprire una cultura differente, significa scontrarsi contro modi di vita totalmente diversi. Può succedere di sentirsi ripieni di gioia in un momento non precisato e di contro terribilmente impotenti, arrabbiati. Capita da donna di indignarsi e ritrovarsi soltanto con delle mani tra i capelli e il capo chino con uno sguardo rivolto verso il nulla quando sino ad oggi quei diritti basilari e fondamentali vengono sistematicamente violati e quando ancora la donna non è allo stesso pari dell’uomo, quando non è neppure discussa la sua autorità e il tutto accade giorno dopo giorno davanti ai tuoi occhi. Quando questo paese si mostra diviso tra il Nord e gli scontri indipendentisti della Casamance. Stato intorpidito dalle favole dell’Occidente e dai sogni di gloria che spesso si traducono in viaggio disperato e povero verso l’Europa. Da chi, emigrato alla volta del Vecchio Mondo, pur di non ritornare macchiato dall’onta dell’insuccesso ricerca i modi più disperati per restare lì solo e ancora più povero. Peccherò probabilmente di presunzione, ma sono sempre più persuasa che l’Africa abbia bisogno in primis di una rivoluzione ed emancipazione del modus pensandis; una riacquisizione delle capacità di organizzazione proprie che di una massa di confusi aiuti anestetizzanti dell’Occidente.
Se mai prima ti sei trovato in questo posto hai la sensazione che ogni cosa muovi al contrario; troppo differente dalle tue percezioni e ti chiedi allora se fino ad oggi non sei stato in fallo. La saggezza di semplici uomini che puoi incontrare sul tuo cammino distruggono le tue certezze ovattate e imbellettate: vengono semplicemente smembrate. Allora inizi a spogliarti della tua arroganza e senti il bisogno di muoverti per comprendere da solo come funzionano qui le cose. Dal Sud al profondo Nord ho viaggiato per il Senegal e di gente e luoghi ho avuto modo di conoscerne. In quei momenti in cui ti trovi in un taxi per tante ore, scrostato, arrugginito e regolarmente col parabrezza crepato le strade calde e dissestate, proprio in quei momenti ho scoperto degli stati di grazia per il mio spirito. Il vento che ti carezza il viso e la vita che si mostra nuda e bella, terribilmente bella e vera. Gli unici bagagli, quelli utili, diventano il cielo l’eccitazione della scoperta e un po’ di incoscienza. Attraversare le frontiere, passaporti timbrati e attese bibliche perché come un proverbio senegalese recita: “L’attesa non è mai tempo sprecato. Goditela, fratello!”. Spiagge immense e dorate, la religiosità del caffè Touba, l’osservanza del Ramadan, le preghiere degli Xassaïdes, la cordialità dei Baye Fall, i cadeau inaspettati, le notti interminabili suonando un Djembe con le mani che ardono e il cuore ricolmo di energia. L’eccitazione di sentire l’acqua fresca dell’oceano solleticare i piedi stanchi e tuffarsi nudi e liberi pochi minuti dopo ogni santa volta che lo raggiungi. Questo pezzo d’Africa, la terra della Teranga ritengo sia profondamente donna e proprio come una donna sa essere sensuale, intrisa di mistero, alcune volte crudele e sa farti tanto male. La sua contraddittorietà ti lacera l’anima. E’ passione ed è intima come un bacio sulle labbra. Probabilmente i frutti del lavoro svolto qui non sarò io a raccoglierli ma per certo so di avere lasciato un segno. Lo avverto ogni volta che sento il mio nome per strada, per tutte quelle che lavorando mi sono sentita dire “on est ensemble” da chi davvero lo credeva quando lo diceva. Da chi ha speso del tempo con me, da chi mi ha stretto forte la mano, da chi mi ha supportata, da tutte le volte che tornando a casa mi sono sentita davvero a casa mia accolta e rispettata; da chi mi ha detto che qualcosa dentro me è profondamente legato a questa terra e che ovunque andrò sarò accolta e dalla grandezza e bellezza di Mamma Africa, che mica ci credevo io alla sua forte presenza. Ma capita poi, come una epifania, di sentire il suo immenso abbraccio o il suo severo rimprovero. Quando torni a casa di notte con la pioggia che lava via ogni cosa, coi piedi nel fango anche lì riesci a sentirla.
Un materasso per terra, una valigia come armadio e una candela sul tavolo che illumina fiocamente la mia stanza. Il richiamo dei fedeli alla preghiera dalla moschea alle quattro del mattino che accompagna il mio sonno. Non ho altro e non voglio altro. Che bella sei, Africa, e a qualcuno dissi che c’avrei fatto l’amore con questa terra e l’ho mantenuta questa parola. Adesso mi preparo per l’ultimo grande viaggio che mi porterà fino a Touba, la Mecca del Senegal. Tra un mese tornerò nella mia amata Palermo, ma qui lascio un pezzo di me.
Capita di innamorarsi e di Lei mi sono innamorata.
“Il mio cuore è come nube, vuole vagare in mezzo al cielo”. Se dovessi descrivermi con una frase, sarebbe sicuramente questa.
Maria Francesca D’Alia