Sono arrivata a Bhubaneswar (India) piena di paure e incertezze; tutto intorno a me era sconosciuto, ma ero curiosa come una bambina al suo primo giorno di scuola. I primi giorni mi hanno lasciato sconcertata, dovevo abituarmi ad ogni attività, anche le cose più banali mi sembravano molto diverse dalle mie abitudini occidentali. Per fortuna ci sono voluti solo un paio di giorni per abituarmi (al cibo, al modo in cui si mangia, pure al modo di attraversare la strada), e mi sono resa conto che questo luogo sarebbe stato con me per i prossimi cinque mesi. Dopo un po’ sono iniziate le attività: all’inizio ero perplessa e non ero ben preparata per le giornate tranne che alcuni seminari sull’orticoltura e sul giardinaggio urbano.
Nel tempo mi sono resa conto che c’era un diverso approccio al lavoro e all’organizzazione, e che gli indiani preferiscono giorni caratterizzati da un ritmo più lento di quelli cui ero abituata. Mi sono resa conto che era importante l’auto-organizzazione e di fare del nostro meglio per programmare il giorno; questa società ci ha lasciato molto spazio per esprimere noi stessi. I giorni nei villaggi e nelle scuole delle slum sono stati i migliori, i più produttivi, divertenti e soddisfacenti: piantare degli alberi da frutta, fare il gioco di memoria con la carta e lo scotch con i bambini del villaggio, e le lezioni di apicoltura. Nella scuola della slum ogni gruppo era formato da 11-13 bambini con due o tre volontari; le attività più frequenti erano: lezioni di matematica e inglese, ma anche quelli di disegno e gioco libero. La vita quotidiana era caratterizzata da queste attività, ma sono riuscita a trovare tempo per godermi la città di Bhubaneswar con i suoi numerosi templi indù.
Ci sono molti ricordi e sentimenti indimenticabili, dai più positivi ai più tristi, un turbine di emozioni che sono emanati da qualunque cosa o situazione circostante: un bambino sulla strada, un incontro casuale con un guru, un viaggio per scoprire nuove emozioni nel deserto del Rajasthan. Ogni luogo era magico, e ogni situazione, anche la più banale, era unica.
Certo, c’erano anche momenti di sconforto e solitudine, però mai il desiderio di abbandonare; quel luogo è diventato la mia casa, il mio rifugio.
Cinque mesi pieni di colore, vita, amore, amore per tutti quei bambini, quei visi che non potrò mai dimenticare.
Daniela,
Volontaria SVE nell’ambito del progetto Erasmus+ project “Planting Cities”
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